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Danilo Caravà, Milano Teatri

Il personaggio dell’avvocato, interpretato efficacemente da Luca Radaelli, incarna la parola stessa del romanzo, la sua vocalità batte con convinzione come se pigiasse i tasti di una lettera 22, in preda ad un’ispirazione frenetica incontenibile. Regge bene, come un mitologico Atlante il vasto cielo di parole di questo spettacolo, e si fa contagiare gradatamente dal “I would prefer of not” di Bartleby fino all’epilogo dove cava dalla laringe una voce scevra dalla pompa e dal fasto retorico, una vocina bartlebiana, la cui luce sottile incanta come i fiammiferi di Prévert. Il giovane attore Gabriele Vollaro trova, aiutato dalla maieutica regia, una recitazione tutta fatta e capitalizzata sugli sguardi e su piccoli gesti, dove le parole suonano una musica nuda, essenziale, percorrono idealmente all’indietro la genealogia del suono e delle intenzioni, che ne costituiscono le armoniche, per arrivare, al tinnio puro, argentino, del cristallo.
L’operazione del regista Sarti è più che convincente, e riesce a far sentire lo scricchiolio della penna di Melville, a rendere l’atto stesso creativo con cui è nato il romanzo, dosa con saggezza i larghetti ed i prestissimo creando un concertato che arriva a coinvolgere la platea.
Bartleby è quanto di più prossimo ci possa essere all’inconscio, di quell’Altro che ci abita.
L’intuizione di Sarti è stata quella di trovare in questa storia una forza sociale, dinamitarda, una forma gandhiana di satyagraha, di resistenza non-violenta trovata tra le pagine della letteratura americana, un rappelle a l’ordre da lanciare verso il pubblico, un invito, forse, a fare tutti un po’ più di silenzio per sentire i muti sguardi di Bartleby suonare una musica dolcissima che sciolga i nodi di parole che avviluppano il cuore.

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