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CORIANDOLI BIANCHI

Fu tutt’altro che incoraggiante il mio primo giorno di prove con Giorgio Strehler. Era il 1976, il Maestro dirigeva La storia della bambola abbandonata. Tutto vestito di nero, come d’ordinanza per un mimo di allora, da dietro un velo azzurro dovevo far scivolare dei coriandoli bianchi per fare in modo che sembrassero fiocchi di neve che cadevano delicatamente. Io, invece, quella manciata di coriandoli la gettai, non dico come fa un ubriaco alle tre di notte a carnevale, ma nemmeno con la tensione che quel momento drammatico – era la scena di una madre che cercava di proteggere dal gelo il proprio figlio – esigeva.

Forse non mi avevano spiegato bene cosa dovessi fare o io non avevo colto la sostanza, sta di fatto che, appena mi fui liberato dello sbuffo, sentii una specie di rombo di tuono: «Se uno è un poeta deve fare il poeta, se è un macellaio deve fare il macellaio». Dietro quel sin troppo esile velo azzurro mi chiedevo con chi ce l’avesse “quello là” e guardavo interrogativamente un altro mimo sciagurato che si trovava nella mia stessa condizione, nelle quinte il macchinista, il direttore di scena, la sarta… senza riuscire a capire perché tutti loro stessero guardando me.

Realizzai chi fosse il povero tapino destinatario di quella valanga di rimproveri solo quando sentii Marise Flash, collaboratrice storica di Strehler, mia insegnante di mimo alla Civica Paolo Grassi, che con la sua erre moscia controbatteva: «No, Sgiorgiò. È il più bravò del corsò». Mi dissi: «Ora si calma» e invece aumentarono le imprecazioni e un bicchiere o un posacenere volò frantumandosi. Il giorno dopo, la stessa Marise mi costrinse a ritornare alle prove, altrimenti col fischio che sarei ritornato da Mangiafuoco.

A onor del vero, alcuni giorni dopo Strehler chiese a me, un mimo, di dire alcune brevi battute di un altro attore, per una sostituzione interna. Le dissi e, appena tornato in quinta, sentii la sua voce che mi convocava perentoriamente: «Renato!». Andai in mezzo al palco con lo stesso entusiasmo di Giovanna d’Arco mentre si recava al rogo… e invece, con la medesima ruvida e brusca schiettezza del primo giorno, proferì un «Congratulations. Via!», che a distanza di quarant’anni ho ancora nelle orecchie come fosse oggi.

Al Piccolo, in seguito, lavorai in un altro paio di spettacoli, fra cui La Tempesta – esperienza che valeva anni di scuola – e mi ci riavvicinai come drammaturgo alla fine degli anni Ottanta, dopo quasi un decennio da attore nella straordinaria palestra dell’Elfo. Il Maestro fece la regia di un mio testo, Libero, ed ebbi così l’onore di essere uno dei pochissimi autori viventi italiani a essere stato messo in scena da Strehler. Nel 1995, poi, a Trieste fu attore partecipe e generoso di una lettura che diressi all’interno della Risiera di San Sabba. Si divertì anche a presentare al Teatro Lirico un libro che avevo scritto su Angelo Cecchelin, un comico triestino che il nonno del Maestro, impresario teatrale, aveva più volte scritturato.

Il 25 dicembre 1997 fu Paolo Rossi che mi telefonò per darmi la brutta notizia. Passai tutta la notte con Paolo a gironzolare per Brera e nella sala di via Rovello. Non so se fosse vero o rientrasse nelle leggende che spuntano come funghi in teatro, ma girava voce che Strehler fosse affetto da poliglobulia − troppi globuli rossi − un disturbo per cui, tanto per comprenderci, nei secoli passati si faceva ricorso ai salassi con le sanguisughe. Sta di fatto che la sua foga e la sua passione teatrale erano pari solo alla ricerca maniacale della perfezione, tanto che era capace di passare ore e ore per ottenere quella battuta, quell’effetto scenotecnico o di luce che aveva in mente.

Sarà perché, essendo triestini e parlando esclusivamente “triestin patoco”, mi aveva preso un po’ in simpatia (anche se lui era di Barcola, ridente rione sul mare, all’ingresso della città, dove le belle mule vanno a fare il bagno e ad abbronzarsi e mi de San Giacomo, quartiere costruito per gli operai del Cantiere San Marco sottostante, pieno di alcolizzati e sbusoni).

Sarà perché mi permetteva di accedere alle sue prove, comprese quelle del Don Giovanni alla Scala.

Sarà perché mi ha insegnato questo mestiere e ad amarlo, cosa che forse mi ha salvato.

Sarà perché prese le mie difese sul Corriere della Sera quando venni pettinato con i sassi dopo le mie prime uscite come drammaturgo: “Renato Sarti, un giovane autore che vince premi su premi, indegnamente massacrato da una parte dell’intellighenzia milanese”.

Sarà perché ha fondato il Piccolo Teatro di Milano in un ex luogo di tortura fascista, cercando di bonificarlo da tutto l’orrore di cui era intriso con l’arte e la cultura.

Sarà perché quel teatro ha trovato la sua forza intorno a un’idea che molti teatranti, me compreso, hanno fatto propria ed è più che mai valida, e cioè che la cultura, al pari dei trasporti pubblici e dei vigili del fuoco, dell’erogazione dell’acqua, dell’elettricità o del gas, è un servizio pubblico indispensabile per una comunità che si ritiene tale.

Sarà, anzi è per tutte queste ragioni che, a vent’anni dalla sua scomparsa, dedico al Maestro, con profonda gratitudine, la quindicesima stagione del Teatro della Cooperativa.

Renato Sarti

 

Perché sarò al Teatro della Cooperativa?

Perché ho bisogno di soldi e lì gli incassi sono più che copiosi.

Perché voglio recitare ogni sera con folle oceaniche.

Perché mi hanno garantito un sontuoso camerino.

Perché il palcoscenico è a misura di elefante se mi salta al naso d’allestire l’Aida.

Perché sta in centro.

Perché Renato Sarti sa mantenere utili agganci politici.

E infine perché io sono il migliore e questo non mi consente di ricominciare sempre da capo.

Paolo Rossi

P.S.

E poi mi hanno promesso che l’ultimo dell’anno se magna la jota.